Romanzi, racconti, saggi, poesie, il catalogo di Laura Forti è questo. C’è tanta cultura ebraica, ma non solo, nei suggerimenti di lettura della scrittrice e drammaturga Laura Forti, autrice de La figlia inutile e La casa in fiamme per Guanda, e in precedenza, per Giuntina, di Forse mio padre e L’acrobata. La nuova puntata della nostra rubrica più amata (qui la lista completa dei contributi)
“Inabissarsi” di Aldo Nove (Il Saggiatore)
Era da un po’ di tempo che non sentivo parlare di Aldo Nove (ma si tratta di una mia distrazione). Per me era rimasto nella memoria, anche se poi ha pubblicato molto altro, lo scrittore ultrasensibile de La vita oscena, un libro forte, sincero, nel quale l’autore si racconta con coraggio e autenticità. Ed ecco che lo ritrovo con piacere in questo Inabissarsi, racconto della discesa verso la profondità della vita tenendo per mano la poesia. Anche questo è un testo se vogliamo autobiografico, a partire dall’immagine di quel bambino per il quale punti di riferimento erano il cielo insondabile e i libri, l’immagine di un palombaro che scava scava sul fondo dell’oceano per trovare qualcosa di luminoso e immenso; e poi perché Aldo Nove ci fa conoscere i suoi poeti preferiti, quelli che incontrato dal vivo o nelle pagine, poi diventati amici, Elio Pagliarani, Franco Buffoni, Nanni Balestrini, Andrea Zanzotto, Amelia Rosselli e Rimbaud, Montale e Ceronetti; ma anche i versi che ama, quelli che catturano un’essenza, che sono finestre, specchi sul mistero da cui proveniamo, parole esatte che ci entrano dentro per risvegliare l’anima e farle fare un salto di rigenerazione. Nove nella poesia respira, ne coglie i sussurri e le pulsazioni. Perché la poesia non eleva, inabissa, porta al limite estremo, chiede di mettersi completamente in gioco. E in cambio restituisce paesaggi e visioni, nutrimento e trasfigurazione: ape e trifoglio e sogno per fare un prato, come dice Dickinson, di cui Nove ha tradotto i versi più belli. I poeti la vita non la vivono, la ricreano.
Se le api sono poche il sogno basterà.
“Patrilineare. Una storia di fantasmi” di Enrico Fink (Lindau)
Nato da uno spettacolo teatrale e musicale, adesso Patrilineare diventa un libro e porta come sottotitolo Una storia di fantasmi. C’è infatti sempre un’ombra nera che insegue Elias, il protagonista della storia, fin dagli anni giovanili in cui è cubista in discoteca per poi arrivare alla maturità in cui abbraccia l’ebraismo e la conversione. L’ombra di un mondo patrilineare, maschile, ignoto, mai conosciuto, se non nei racconti del padre. Bisognerà ridare corpo ai fantasmi per riempire il vuoto emotivo che Elias porta dentro: ridare vita al bisnonno Benzion che viene dalla Russia e si ferma a Gorizia dove diventa quasi per caso cantore di sinagoga, al sinistro Isidoro-Isacco, vitale, arrabbiato con il destino, in fuga dai fascisti che lo vogliono deportare (e purtroppo ci riescono) al punto, forse, da abbandonare moglie e figlio (che invece si salvano). Con grande sensibilità e guizzi di umorismo necessario, Enrico Fink mastica memoria, la dipana in una prosa quasi poetica, trova la sua voce di uomo, non più semplice figlio del passato ma soggetto attivo della scrittura, in un affrancamento doloroso ma anche salvifico, in cui tutte le parti dell’identità alla fine vanno a comporre un puzzle di memorie, musica e presente: una possibile risposta contemporanea alla cancellazione, un’affermazione della propria voce generazionale in rapporto a quella dei padri.
“Malbianco” di Mario Desiati (Einaudi)
Marco sviene. Sviene di continuo. Da dove viene questo malessere che lo consuma fin dall’infanzia? Sarà necessario tornare in Puglia per scoprirlo, o meglio, iniziare un viaggio a ritroso, nel tempo e nella storia, perché alla base di quella confusione, di quella sensazione offuscata, quel disagio che come un parassita si abbarbica al corpo e allo spirito c’è un trauma incapsulato, chiuso in una cripta, che continua a influenzare la vita e l’identità dei discendenti. Si torna indietro allora, ma per ripartire, tra siti di genealogia e fogli ingialliti, fino a cercare l’origine del non detto. E poi c’è quel cognome dal sapore straniero, Petrovici, nome vacante occupato da Marco, il protagonista. La zia Ada, che vive da sola in un bosco, gli permette di entrare in contatto con il silenzio familiare e gli insegna a affrontarne i conflitti. Quell’origine segreta tocca la guerra e le migrazioni. La bisnonna Addolorata per esempio, probabilmente figlia di ebrei ashenaziti fuggiti dai pogrom. I figli, Demetrio Petrovici, deportato dopo l’8 settembre nei campi di lavoro in Germania, che si rende conto in virtù di una canzone in yiddish cantata dalla mamma di quale sia la sua vera identità; e suo fratello Vladimiro, Pepin, musicista a orecchio, che grazie alla musica riesce a far defluire il suo tormento interiore, disertore in Russia. Un libro che ha per protagonista centrale un bisogno, quello di arrivare alla verità personale, costi quello che costi, per vivere un’esistenza autentica; e che parla anche della forza della poesia, capace di mettere in contatto mondi lontani – come quei versi di Ungaretti ascoltati da Marco a Natale che richiamano il sentire di Demetrio nei giorni di freddo e di prigionia – e di aiutarci a resistere al male che avvelena l’anima.
“Perché scrivere” di Philip Roth (Einaudi)
Questo suggerimento di lettura è un classico, ma lo ripropongo perché per me è un libro rigenerante dove torno spesso a cercare ispirazione e conforto, come prendere un caffè con un amico. Si tratta di Perché scrivere di Philip Roth. Tra poco Roth cambierà famiglia passando da Einaudi a Adelphi e forse troverà una seconda vita e una consacrazione definitiva presso il pubblico italiano. Speriamo. L’ho detto in altre occasioni ma, secondo me, della cospicua eredità letteraria di Roth si conosce ancora troppo poco, nonostante la sua prodigiosa carriera. Si citano sì e no tre titoli importanti; eppure è stato uno degli scrittori più prolifici. Forse perché la sua scrittura racconta spesso in modo specifico l’America e in particolare il mondo ebraico americano, quello stratificarsi di generazioni che per i lettori italiani sono percepite come straniere, diverse da sé? In Perchè scrivere incontrerete un affabulatore straordinario, un compagno di conversazione acuto. Troverete un’attenta lettura degli amici Bellow e Malamud; l’orgoglio e le difficoltà di un autore discusso alle prese con la sua identità ebraica e la polemica spassosa con Wikipedia, una straordinaria intervista a Primo Levi poco prima del suo suicidio, la spiegazione del concetto abusato di autobiografia, l’esortazione a un uso esatto delle parole e della scrittura, strumento affilato e chirurgico per giungere all’essenza, la potenzialità dell’immaginazione rispetto alla memoria (lo straordinario racconto in cui si immagina che Kafka, emigrato in America, sia diventato un insegnante di Talmud Torà e frequenti una zia di Roth, come l’invenzione di Amy Bellette, novella Anna Frank). Se avete voglia di riflettere sul senso profondo della letteratura e sulle sue capovolte, se vi siete arrugginiti e volete riscaldare e stiracchiare i muscoli, sfogliate le pagine di questo potente, generoso, nutriente saggio di Philip Roth.
“Aria di famiglia” di Alessandro Piperno (Mondadori)
Mi è sempre piaciuto Alessandro Piperno, scrive benissimo. Ma questo romanzo in modo particolare, anzi, secondo me segna l’inizio di qualcosa di nuovo. È quasi diviso in due parti, una di stampo rothiano, che vede il professor Sacerdoti cacciato dall’Università per un’accusa infamante e la seconda incentrata sull’arrivo nella vita di un uomo depresso della persona a lui meno congeniale: un bambino di otto anni, Noah, figlio di una cugina ortodossa. Ed è questa la parte nuova e per questo vitale e creativa della scrittura. Dopo gli inevitabili e maldestri tentativi del protagonista di ingraziarsi il ragazzino in modo tecnico, quasi strategico, sarà proprio la condivisione dei reciproci dolori a creare un’aria di famiglia e a riconnettere emozionalmente Sacerdoti non solo alle sue origini ebraiche perdute ma anche al bambino abbandonato che c’è in lui dalla morte dei genitori. Un romanzo che scorre, che diverte e che commuove, che affronta i sentimenti senza paura, con incredibile delicatezza.
“Triste tigre” di Neige Sinno (Neri Pozza)
Pluripremiato anche con lo Strega europeo, non è soltanto un libro testimonianza sugli abusi subiti da una bambina di nove anni dal suo patrigno, la cronaca giudiziaria dei processi che ne sono derivati. È un libro dove la scrittura è protagonista e l’autrice cerca di raccontare, usando parole lucide, che cosa significa vivere in un mondo di tenebre. È questa la qualità letteraria, quello sforzo di trovare le parole giuste per dirlo, per parlare di un’esperienza privata eppure universale, che ogni volta tocca l’anima di un essere umano diverso. Ho trovato particolarmente interessante anche il tentativo di ricostruire la personalità dell’aggressore, non tanto di capirlo nè tantomeno di perdonarlo, ma di avere il coraggio di disegnarlo, di dargli una forma; una sorta di terapia che la vittima di abuso compie per affrontare la propria paura e il male subito, un guardare negli occhi, sperando di non perdersi, l’abisso. Ho letto per curiosità le recensioni su amazon: tanti considerano il libro noioso, inutile, ripetitivo – accanto ai tantissimi che ne apprezzano invece il contenuto e il significato. Quanta paura ci fa ancora parlare di abuso e quanto sarebbe importante invece ascoltare le voci di chi è sopravvissuto, portare il disegno del mostro alla luce del sole e appenderlo a un filo con due mollette in modo che tutti lo vedano, senza vergogna.
“Correzione automatica” di Etgar Keret (Feltrinelli)
Sono folate di vento primaverile questi trentatré racconti che si leggono d’un fiato, apparentemente leggeri ma in realtà pastosi concentrati di umanità, sia che parlino di universi paralleli, che di tecnologia o lascino sullo sfondo il periodo del Covid, il 7 ottobre e il conflitto Israele-palestinese. Ma tutto è appena accennato, lontano, tanto che non li diresti scritti da un israeliano. Un camuffamento strategico, dato il recente boicottaggio culturale a tutto ciò che viene da Israele (e purtroppo anche a ciò che è cultura ebraica, in una grande, sospetta confusione di piani)? Eppure il senso profondo di vita e di morte che aleggia in questi racconti, la qualità delle relazioni, il porsi davanti all’assoluto della fede, l’umorismo tagliente che viene dalla consapevolezza della nostra caducità rende questo libro molto israeliano nei contenuti. Come sostenne Avraham Yehoshua il romanzo ormai vive solo in Israele, unico luogo dove il contatto con la precarietà dell’esistenza è quotidiano – questo a suo parere genera letteratura. Che sia vero o no, i trentatré racconti di Keret sintetizzano l’umanità in pillole un po’ dolci, un po’ amare, vitamine per il cuore e il cervello.
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