“Moby Dick” è uno dei capolavori della letteratura mondiale di tutti i tempi. Nel personaggio di Achab Melville ha messo il riassunto delle battaglie quotidiane attraverso cui la rabbia diventa vita, che ci mettono nelle condizioni di “amare” ciò che combattiamo. La speranza, attraverso la lettura, è che il Capitano e la sua bianca Sposa possano risorgere riconciliati alla vita, umani e divini insieme
Era l’11 settembre del 1857 quando l’SS Central America, una nave da trasporto, si trovò nel bel mezzo di un uragano, cominciando a imbarcare acqua mentre la sua caldaia smetteva di funzionare, e preparandosi al suo inevitabile destino che nel giro di ventiquattro ore l’avrebbe vista calare a picco insieme a più di quattrocento persone tra passeggeri ed equipaggio, e portando con sé negli abissi un enorme carico aurifero proveniente dalle miniere della California.
Si dovette attendere un bel po’ prima che l’11 settembre del 1988, e quindi esattamente 131 anni dopo, un gruppo di ricerca capitanato da un intuitivo signore che si chiamava Tommy Thompson, ritrovasse il relitto del piroscafo, e ricuperasse anche parte dell’oro in esso custodito.
Segno che il mare, per quanto terribile sia, può anche conservare e restituirci ciò che inghiotte. Ed esattamente come quell’oro, il cui valore è oggi triplicato rispetto a prima di affondare, anche altri tesori rimasti sott’acqua per molti anni vengono poi riconsegnati all’umanità con un valore decisamente superiore.
Simile alla storia dell’SS Central America, infatti, è quella di un romanzo.
Come oro sommerso negli abissi
Non sono solo gli autori ad avere delle biografie avventurose… Spesso anche i loro libri sono soggetti a peregrinazioni e travagli vari, prima che qualcuno possa averli tra le mani. E spesso “ritrovare” queste “opere sommerse” equivale a scoprirle per la prima volta, e poterle leggere con un valore aggiunto sul quale, all’inizio della loro vita editoriale, pochi avrebbero scommesso.
Anzi, a differenza di quel carico d’oro prima inabissatosi e poi ritrovato, certi romanzi non erano considerati “preziosi” neanche prima di affondare. Quindi, a maggior ragione, ritrovarli significa non solo riscoprirli, ma “ricrearli”.
E proprio come avvenne per la SS Central America nel 1988, anche un certo Raymond Melbourne Weaver, professore universitario alla Columbia, si fece promotore, nel 1924, di uno stupefacente ritrovamento! Fu lui, infatti, a mettersi al lavoro affinché, tramite la sua Università, un vecchio libro venisse strappato ai fondali dei magazzini e, dopo 73 anni, rimesso in circolazione in un’edizione che molto tempo dopo la sua prima pubblicazione incontrò, questa volta, un pieno favore da parte del pubblico. Ci riferiamo naturalmente a Moby Dick, il capolavoro di Hermann Melville.
Chi non conosce il famoso romanzo tutto ottocentesco, nelle forme e nei colori, in cui un appassionato e folle capitano consacra la sua esistenza alla caccia di un enorme capodoglio albino?
Fra timore e reverenza
L’immagine “sacra” (perché inconsueta, perché mostruosa) della balena bianca, ci ha suscitato sempre quel classico sentimento di timore e di riverenza: una creatura titanica e terrificante eppure troppo bella e rara per farne oggetto da arpioni… Anche se è proprio questo l’intento di Achab!
E allora bisogna supporre che per il corrucciato capitano fosse sacra non solo la balena, ma anche la sua propria necessità di distruggerla, di sconfiggerla, di tirarla fuori dai flutti e di averne ragione! Una ragione che non è più semplicemente da ricercare negli intenti di un baleniere, ma nelle aspirazioni profonde di un uomo. Due sacralità a confronto: l’una impetuosa, istintiva e incontrollabile, come quella di una forza della natura, come un uragano in mare aperto; l’altra determinata, combattiva, tenace, come quella di un “essere umano” che non si accontenta del secondo termine di questo binomio, ma ambisce possedere il primo, l’essere. E se questo essere lo si può afferrare solo attraverso la morte di quel cetaceo, allora sia la guerra!
Impeto del cuore e inquietudine del divenire
Naturalmente, come avviene nel caso di molti romanzi d’avventura di quel periodo, l’impeto del cuore umano è messo al centro, e tutta la storia (che va ben oltre l’intenzione di voler divertire i lettori) si incentra fermamente sull’inquietudine del divenire, a cui la trama dà poi una forma ed un contenuto.
È un romanzo teleologico più che teologico, perché la questione non si sviluppa in modo diretto sull’oggetto del divino, quanto piuttosto su ciò che lo contiene e che dev’essere raggiunto e conquistato… Come un bambino affamato di dolci, che però concentra tutta la sua attenzione sulla scatola che li contiene: un agognato tesoro che dev’essere afferrato, anche se si trova lì, sulla dispensa, dove lui non può arrivare se non mettendosi in punta di piedi, e pericolosamente, su un sottile sgabello. Per quel bambino, quella scatola colorata è l’obiettivo, lo scopo. Il suo desiderio sono i dolci contenuti all’interno, ma lui se ne scorda, e quella scatola diviene il termine mediatore della sua ricerca e della sua conquista.
O come quell’uomo che trova per caso un tesoro in un campo, e vende tutto ciò che ha per comprare il campo, insieme al tesoro che esso custodisce…
Una luce che non tutti riescono a vedere
Così Moby Dick, che non è un campo o una scatola colorata, ma attira attraverso la lucentezza della sua rarissima pigmentazione; e dove il bianco della sua spessa pelle diviene non una mancanza di colore ma, al contrario, uno stesso anticipo della luce che porta dentro. Una luce che tra gli spruzzi dei marosi non tutti riescono a vedere, ma che risplende comunque.
Achab, nell’inseguire il suo personale Leviatano, consuma la propria storia prestando il suo cuore e tutta la sua forza spirituale ad un’intera razza fatta di frammenti umani che, in realtà, cercano ciascuno la propria balena bianca da ammazzare, per far vivere se stessi.
E ancora una volta, quindi, le trame del racconto diventano impalcature portanti sulle quali è possibile rinvenire una “fenomenologia iperbolica”: un insieme di segni che il romanzo esaspera ed amplifica fino allo spasimo disperato che rantola dalle ultime righe, ma che in realtà sono, ben più semplicemente, le acute osservazioni circa le esigenze dello spirito, e di quella volontà di potenza attraverso la quale un uomo deve rispondere alla domanda perennemente aperta su se stesso, imparando che dev’essere capace di determinarsi, anche se questo deve diventare battaglia, conflitto, e costargli la vita. Ma solo ciò che vale, costa.
In Achab un po’ di tutti noi
Si può dunque biasimare la persona di Achab, per la sua follia ossessiva, e per altri suoi mille difetti, ma non il suo personaggio, accuratamente ricavato dalla “materia umana”, come la sua gamba dall’avorio. Perché in quel personaggio Melville c’ha messo un po’ di tutti noi. C’ha messo il riassunto di tutte quelle battaglie che ogni giorno, nel paradosso attraverso cui la rabbia diventa vita, ci mettono nelle condizioni di “amare” ciò che combattiamo, perché se non amassimo gli specchi della nostra desolazione non andremmo mai a cercarli per poterli fare a pezzi, dopo avervi visto riflessa, però, la nostra stessa immagine.
Achab si specchia in Moby Dick, dai cui fanoni aperti esce fuori il contorno aberrante della sua umana tempesta interiore, che forse è come un’eco di quella dell’Autore. Nel suo abito nero da vecchio lupo di mare, egli si vede riflesso nel bianco di quella apparente nemica, senza la quale, però, non potrebbe degnamente né vivere né morire. E Moby Dick, a sua volta, emancipandosi dal suo ruolo di bestia braccata, diventa cacciatrice, e prende l’iniziativa organizzando il suo contrattacco che, da quel giorno in avanti, le permetterà di eternarsi. Anche lei cerca Achab: l’unico essere umano che abbia visto in lei ben più di un animale! Per lei, ucciderlo significa dargli la vita eterna! Divorarlo, come già aveva fatto con la sua gamba, significa nutrirlo di uno scopo.
Un mutuo riconoscimento di follie informi
Nel libro non si dice, ma negli sguardi incrociati di Achab e di Moby Dick, e pochi istanti prima della tragedia finale, sembra di sentir vibrare nei loro animi e tra la spuma del mare quell’antica e primigenia scoperta: Questa volta essa è carne della mia carne, ed osso dalle mie ossa!
Vi è un mutuo riconoscimento di follie informi che hanno bisogno di legarsi e di incastrarsi tra loro, perché ciascuna delle due possa determinarsi in un preciso fine, e dare ragione di sé a se stessa.
Ma se il romanzo Moby Dick è una scoperta, ed è come un navigare su acque perennemente inquiete, cosa c’è sotto? Quale fondale marino è stato il grembo di questo imponente racconto? In quale oscuro ventre il Giona-Melville maturò il flusso infinito delle sue riflessioni divenute romanzo?
L’effigie di un riscatto umano
Forse, esattamente come “Ismaele”, il cui marinaresco personaggio descrive gli eventi del romanzo prestando la sua voce all’Autore, Melville aveva solo voglia di raccontare, di descrivere un mondo invisibile ad occhi pigri e pavidi, che non sanno stare aperti sott’acqua. In quello che lui definisce il suo “romanzo malvagio”, e in cui si illude di descrivere nel suo capitano solo un personaggio maledetto, egli invece scalfisce l’effigie di un riscatto umano definito fin nei più osceni dettagli del turbamento spirituale.
Chi non l’ha ancora letto si affacci dalla prua col suo cannocchiale, e indaghi il lontano orizzonte di Melville, ovvero la sua vita, la sua storia, che è il drammatico capoverso di tutte le altre uscite dalla sua penna.
Un uomo nato nel 1819, in una New York ancora decisamente marittima, meta di infiniti avventurieri che vi sbarcavano in cerca di fortuna, e porto di altrettanti pionieri che, da lì, si imbarcavano verso l’Europa alla scoperta di se stessi; e in tutto questo non si può non immaginare un giovanissimo Hermann con l’odore di salsedine mescolato all’anima; cresciuto ascoltando i racconti di suo padre, e dunque allevato fin da piccolo a quelle storie di cui si nutrono i piccoli marinai; e poi costretto a veder morire il genitore in preda alla follia, una follia che da allora egli dipingerà sempre, con tinte più o meno decise, nei suoi personaggi migliori.
Ma la carriera dello scrittore è ancora lontana, e non sarà mai definitiva, perché la vera “ciurma ignorante e inconsapevole” sarà un pubblico non ancora pronto alla sua grandezza.
Il morbo di Ulisse
Melville diventa presto autonomo, e fa molti mestieri, compreso quello dell’insegnante, prima di assecondare finalmente la vocazione che aveva sempre portato nel cuore: nel 1839 il battesimo del mare; si imbarca ad appena vent’anni alla volta dell’Inghilterra, che è uno scoglio ancora così lontano e quasi leggendario, e che lo colpirà a tal punto da incubare dentro di lui per altri dieci anni, fino a che diventerà la sua prima narrazione (cripto-autobiografica): Redburn: il suo primo viaggio.
Poi ancora la cattedra e poi di nuovo il mare, in una passione irresistibile, travolgente: il morbo di Ulisse, la malattia dei marinai, che sono disposti anche ad uccidere il capitano pur di tornare a casa, ma che una volta tornati fanno vela verso qualche nuova meta, perché semplicemente il mare per loro è diventato lo scopo e non più il mezzo; e vi sono sempre, da qualche parte, due Colonne d’Ercole che ci aspettano come l’ultima e la più definitiva delle prove.
E così, Hermann si imbarca sulla sua prima baleniera e puntualmente, dopo altri dieci anni di incubazione, viene fuori il romanzo che l’ha consacrato alla storia della Letteratura, senza che egli, tuttavia, ne abbia mai potuto raccogliere una conchiglia di gloria. Raccolse però qualche soddisfazione da altre opere che solo oggi definiremmo minori, mentre all’epoca lo aiutarono a mandare avanti la famiglia.
Ebbe infatti, ancora, una vita avventurosa. Un matrimonio, una fattoria, qualche poesia, e due figli che lo precedettero tristemente verso l’ultimo porto; lui, invece, concluse davvero la sua vita in un porto, lì dove, in qualche modo, l’aveva cominciata: al porto di New York. Ma non come marinaio, baleniere o capitano; questa volta come doganiere… che ignominia per uno abituato a cercare tesori in mare, dover andare a tassare quelli degli altri…
Il matrimonio con l’Infinito
Ma c’è un episodio della sua vita, una piccola parentesi di quasi un anno per Melville, aperta e chiusa qualche tempo dopo la pubblicazione di Moby Dick, che forse rappresenta la sintesi del nostro Autore, e certamente una chiave d’oro per interpretarlo. Dal 1856 al 57, Hermann si imbarcò ancora, e questa volta non dovette lavare ponti né arrotolare cime, né affilare arpioni. Il suo solitario viaggio in Palestina fu un viaggio, punto e basta. Fu un’occasione di cercata ed invocata solitudine, proprio come un deserto in cui fortificare lo spirito, proprio come l’intimo tormento del suo Achab. Melville viaggerà per un anno su un mare che per lui diverrà finalmente l’occasione di celebrare il suo matrimonio con l’Infinito, senza che nulla possa strapparlo da se stesso, e dalla sua silenziosa meditazione.
Il cielo nelle profondità di un abisso
Ci culla come le onde il pensiero che uno scrittore abbia consacrato un anno della sua vita a viaggiare in mare, alla ricerca del suo personale mostro da perseguitare, da distruggere, da amare con tutto se stesso. Sì, ci piace pensare a questo tempo che la logica di un oggi frenetico definirebbe “sprecato”, ma che egli seppe consacrare allo spirito! Quale narratore di storie, quale artigiano di versi, non vorrebbe sentire la “dolcezza di questo naufragio”, oltre la siepe dei crudi accumulamenti quotidiani?
Vorremmo poter dire: «Noi Hermann lo comprendiamo! Capiamo la necessità del suo viaggio! Sappiamo perché volle imprigionarsi in questa solitudine, e conosciamo bene ciò che egli cercava dall’irrequieto spumeggiare di quegli attimi!»
Ma perché si possa davvero capire, bisogna davvero imbarcarsi, mettersi a cercare, costringersi in un mare più grande di noi e pronto a vomitarci addosso, con la forza di un uragano, ogni possibile risposta a ciò per cui abbiamo partorito mille domande. Magari affonderemmo… Ma ci stupirebbe scoprire che il cielo sa nascondersi anche nelle profondità di un abisso, e in fondo capiremmo che i sogni dei marinai, e le loro insolute promesse, rappresentano un’intuizione meravigliosamente umana, dalla quale nessun vivente può scappare.
La caccia disumana, una dolorosa passione
E così, salutando Hermann Melville mentre lo immaginiamo prendere il largo su questo viaggio dentro se stesso, lo ricordiamo ancora con due immagini.
La prima è tutta custodita in una frase del suo romanzo più bello, una frase che ci riassume tutto il significato di quest’opera e della sua intenzione: “…se il suo petto fosse stato un cannone, egli, gli avrebbe sparato contro il suo cuore!”. La descrizione di ciò che è l’eros umano, la “passione umana” come Verbo creatore, il tormento e l’estasi della nostra razza, che rimane inquieta finché non ha potuto raggiungere il proprio fine. Quanto è forte quel “versetto” di Sacra Scrittura caduto fuori dalla Bibbia! Quanto ci fa bene pensare di poter sparare il nostro cuore contro ciò che amiamo, anche se l’oggetto del nostro amore ci costringe a perdere il senno!
La seconda immagine è ancora una volta Achab, il capitano a cui Melville diede lo stesso nome di quel folle re che perseguitava il profeta Elia, che perseguitava Dio. Il capitano che, perseguitando Moby Dick sotto l’apparente alibi di una vendetta personale, desiderava invece unirsi a quel bianco così fatale e luminoso, sul quale infine rimarrà impigliato, quasi crocifisso, dalle funi dei suoi stessi arpioni, finendo con l’inabissarsi insieme alla sua stessa ragione di vita.
E così, nella sua sacrificata ricerca della verità, ci passano davanti gli ultimi istanti della sua vita, troppo ben descritta per non essere vera, dove quella caccia disumana fu la sua dolorosa passione, e il bianco dorso della Balena fu la sua croce, e il mare il suo sepolcro.
E speriamo davvero che, dalle pagine di questo capolavoro, tanto il Capitano quanto la sua bianca Sposa possano risorgere riconciliati alla vita, umani e divini insieme, attraverso di noi, poveri pecca(let)tori.
Buona Pasqua a tutti!