Quelle estati indimenticabili, quei libri splendidi

Non solo consigli di lettura, ma anche pezzi delle nostre vite. Non solo libri che affondano nei nostri ricordi, ma ricordi pieni di quei libri, in estati del passato che tornano sempre, in un modo o nell’altro. Per le letture d’agosto potete attingere a questo catalogo di titoli e di memorie…

“L’educazione sentimentale” di Gustave Flaubert (Einaudi)

Di tutti i mesi estivi agosto è l’unico che amo: è il mese in cui si raccolgono le more, le prugne, le pere Williams e, dopo i temporali di metà mese, fioriscono le scille e soprattutto i ciclamini selvatici.

Proprio in agosto, molto tempo fa, lessi L’educazione sentimentale di Gustave Flaubert, nella traduzione di Lalla Romano per Einaudi. 

Lo lessi in due giorni, a contrastare un senso di perdita profondo che sentivo in quei mesi. È un romanzo di formazione naturalmente, ma è anche un romanzo storico, un romanzo sulla natura, una storia sociale della Francia nell’Ottocento. Un libro mondo.

Frédéric Moreau c’est moi. (Luca Alerci, qui i suoi articoli)

Flaubert

“Il nome della rosa” di Umberto Eco (Bompiani/La Nave di Teseo)

Ho avuto la fortuna di crescere con i miei nonni. Lei, una donna d’altri tempi, arrivata dal futuro per modernità e apertura mentale. Lui, un raffinatissimo e sagace letterato. Entrambi portatori sani di British humor. D’estate, l’irresistibile coppia diventava un trio: la zia Giovanna, cugina della nonna che viveva a Roma, trascorreva con noi le vacanze.

Ero una bambina “normovivace”, di giorno andavo al mare, giocavo con gli altri bambini, facevo capricci e monellerie, ma è la sera che cominciava il vero divertimento e attendevo, con impazienza, il momento di andare a dormire. Nel lettone con nonna (che aspettava sveglia che mia sorella tornasse dalla discoteca, ad un orario proibito dai nostri genitori) ascoltavo le chiacchiere, i racconti e le risate fra le due cugine. Vecchie storie di famiglia; commenti sui parenti; aneddoti della loro gioventù. Nell’estate del 1982 ero abbastanza grande per vincere il sonno e partecipare anch’io alla spaghettata notturna che la nonna intavolava, mentre mia sorella, poco più che adolescente, riferiva i particolari della serata. Quello che mi aiutò a restare sveglia, quelle notti, fu il resoconto, a puntate, che zia Giovanna faceva del libro che stava leggendo. Esordiva dicendo: “Stasera mi faccio fuori un altro frate…”, dopo aver raccontato la brutta fine che aveva fatto quello della sera precedente. Così, senza neanche accorgermene, è entrato nella mia vita, a soli 7 anni, quello che è stato definito uno dei 100 libri più importanti del ventesimo secolo, Il nome della Rosa

Per me era diventando un gioco ascoltare il racconto, a volte inquietante, di morti atroci e misteriose.

L’estate dopo, la mia nonnina non c’era più, nel lettone con me, che avevo fama di menare la notte, la zia, meno arrendevole, prima di spegnere la luce mi diceva: “Paolè, io nun sò tù nonna: a calcio dato, calcio reso! Che ti credi? Io me sò fatta fuori 7 frati in due settimane l’anno scorso!”

E, alla faccia del vecchio padre Jorge, mi addormentavo ridendo. 

Ho riletto, da grande, il capolavoro di Umberto Eco che è molto di più di quella serie di efferati delitti, di cui già conoscevo il colpevole. Un libro di un valore inestimabile che, tinteggiato di giallo, parla di storia, filosofia, di religione e di etica. Multistrato e multiforme.

“Tutti possono leggere lo stesso libro ma ogni libro risuona in modo diverso nell’anima del singolo lettore”. Nella mia, è l’incisione indelebile di una magnifica infanzia. (Paola Ardizzone, qui i suoi articoli)

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“Juke Box all’idrogeno” di Allen Ginsberg (Guanda)

Estate 1988,  non ancora maggiorenne, vacanza studio-lavoro… e altro di tre mesi  a Londra. All’aeroporto di partenza mia madre e mio padre sono sulla terrazza panoramica del terminal per vedere decollare l’aereo che mi porterà in poco più di due ore nella terra di Albione e mentre mi sento schiacciare al seggiolino dalla potenza del velivolo in ascesa penso che qualcosa stia finendo (forse la mia infanzia) e qualcosa dovrà iniziare da lì a poco (forse la mia vita adulta). I primi goffi tentativi di fare “il grande” con le piccole trasgressioni delle prime bevute, le più o meno sofferte, riuscite o deludenti intraprese amorose multietniche (si sa, Londra è una città-mondo) e una lettura controcorrente o underground che dir si voglia fu l’accompagnamento di quell’estate.

Juxe box all’idrogeno di Allen Ginsberg, titolo che già evoca di per sé cose molto estive (il Juke box ovvio) almeno fino a qualche decennio fa, fu l’educazione sentimentale e poetica di quell’estate. La raccolta, contenente Howl, vero e proprio manifesto della beat generation pubblicato nel 1956, quando Ginsberg si trova a Tangeri sulle tracce di William Burroughs è un documento poetico di rara bellezza e dalla potenza sovversiva, onirica e visionaria e allo stesso tempo una voce rabbiosa e un atto di accusa contro il conformismo e la disumanizzazione della società dei consumi come percepita nell’America del secondo dopoguerra. L’urlo di Ginsberg si alza a scardinare le porte della compiaciuta civiltà industriale, materialista e guerrafondaia.

Togliete le serrature dalle porte!

Togliete anche le porte dai cardini!

Questo l’esergo alla prima raccolta, L’Urlo appunto del cui componimento omonimo impossibile non ricordare l’incipit: “Ho visto le menti migliori della mia generazione…”. La generazione dei beat, con quel senso di sconfitta che esso evoca, ma anche di beatitudine, oltre che musicalmente di ritmo, quello della poesia e dell’arte in genere che riuscirà sempre a nobilitare le nostre vite se avremo il coraggio e la fede di resistere. Il volume nella storica traduzione di Fernanda Pivano, che di beat ne sapeva qualcosa, fa sentire anche e me ancora quel battito. (Simone Bachechi, qui i suoi articoli)

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“Il mondo secondo Garp” di John Irving (Rizzoli)

“Perché la gente non deve persuadersi che il “comico” può essere anche molto “serio”? Tanti fanno confusione fra l’essere profondo e l’essere accigliato, o zelante. A quanto pare solo se ti atteggi a serio, credono che tu lo sia. Presumibilmente, gli altri animali non sanno ridere di se stessi, e Garp era convinto che il riso è parente della compassione, di cui c’è tanto bisogno a questo mondo. Lui era stato, dopo tutto, un bambino privo di umorismo – e di religione – e forse per questo, ora, prendeva la commedia più sul serio di tanti altri”. Ho letto Il mondo secondo Garp nell’estate 2009, la mia ultima estate spensierata, ma allora non sapevo che lo fosse. Da allora non ho smesso di leggere i libri di John Irving. Da allora non ho smesso di credere che il riso sia parente della compassione. (Arturo Bollino, qui i suoi articoli)

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“Furore” di John Steinbeck (Bompiani)

Dovevo scegliere tra un’estate significativa e un libro significativo letto d’estate, ma mi sono accorta che spesso vacanze importanti e libri speciali non hanno coinciso nella mia vita, così ho scelto un anno. 2021. L’estate mi ha vista fare i conti con me stessa per alcuni avvenimenti personali e partire per Ponza per una settimana con una ragazza che conoscevo poco più una breve parentesi a San Benedetto del Tronto dove ho conosciuto due persone per me importanti, insieme all’incontro dopo 20 anni con un compagno di scuola, ora compagno di vita, rendono quell’estate speciale. Il libro che ho scelto è stato letto nel 2021, a gennaio, prima di tutto questo. Si tratta di Furore di John Steinbeck. Parlarne in poche righe non è semplice, ma grazie a lui ho scoperto la bellezza della calma, un libro che come i personaggi segue un po’ la quiete del lavoro della terra nella scrittura. Ho scoperto il senso della famiglia e l’attaccamento a un posto che ti ha dato e tolto tanto, molto di più di quello che potrebbe significare lasciare la mia città. Ho scoperto ancora di più qual è la letteratura che amo e che sa commuovermi, come poche direi. (Viviana Calabria)

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“I Buddenbrook” di Thomas Mann

Chiudo gli occhi ed è l’estate di molti anni fa, sono più che giovane, giovanissima, ho quindici anni, sono in quella fase in cui si inizia ad esplorare la grande letteratura come promessa della vita che verrà. È un’estate che promette tanto e che appena iniziata mi tiene a letto per un malanno accompagnato da tempo piovoso, ma poco male ho con me I Buddenbrook di Thomas Mann.

Inizio così uno dei viaggi più belli della mia esperienza di lettrice, la scoperta di un grande del ‘900, della letteratura borghese che della borghesia canta la decadenza. Il romanzo rivela ad ogni pagina una grandezza difficilmente raggiungibile: l’incipit segnato dal pranzo nella grande casa di Lubecca, le atmosfere ovattate fatte di dialoghi inespressi e musica al pianoforte, l’analisi psicologica intrisa di determinismo sociale.

La verità però è che io non amerei così tanto quel libro se nel mezzo non vi fosse custodito un episodio che è un gioiello, un racconto d’amore tra i più belli della letteratura. Tony Buddenbrook si trasferisce al mare per le vacanze e lì incontra Morten Schwarzkopf, un giovane professore intriso di ideali e di poesia e di lui si innamora (quasi) perdutamente. Mann descrive la giornata al mare di Tony e Morten, li racconta mentre passeggiano sulla spiaggia, si parlano, si guardano, neanche si sfiorano, si promettono con gli occhi tutta la speranza del futuro. Ma Tony è una Buddenbrook, unica figlia femmina che, sebbene non destinata alla successione nella gestione della casa e della ditta, si fa portatrice ferma dei valori che custodiscono e blindano la famiglia borghese. Tony al suo ritorno nella casa sulla Mengstrasse sacrificherà il suo unico amore sull’altare del perbenismo borghese condannandosi ad una vita di infelicità.

Io sono lì che, passato il malanno, passeggio su una spiaggia dell’Adriatico e penso a Tony che passeggia su spiagge infinite in una luce più obliqua, intravede scogli che io scorgo nel mare e mi convinco che mai nella vita io sceglierò, come Tony, una calcolata e rassicurante infelicità. (Anna Caputo, qui i suoi articoli)

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“Il giovane Holden” di J. D. Salinger (Einaudi)

Era l’estate dei 15 anni, avevo finito il ginnasio e la prof di lettere aveva consigliato tra i libri da leggere, quelli non obbligatori, ma seminati lì per i curiosi, Il giovane Holden. Folgorazione. Fu un gradino notevole, un salto avanti della carriera di giovane lettrice che mi fece tenere salda al libro, mentre le lancette scorrevano. Ricordo distintamente la notte in cui, ventilatore acceso e luce al neon della cucina, entrai nel romanzo e la lingua di Salinger mi prese a schiaffoni. “Ma allora si può scrivere così?” pensavo. E intanto facevo la conoscenza con Holden Caulfield, e mentre cercavo di capirlo, cosa che mi riusciva piuttosto bene, mi sembrava fosse stato da sempre un mio amico e mi sorprendevo, pagina dopo pagina, per come la sua storia fosse stata pensata e scritta da quel misterioso Salinger di cui la biografia raccontava pochissimo. Quella lettura mantiene ancora oggi, nel suo ricordo di scoperta estiva, la freschezza e lo stupore per lo svelamento di un nuovo modo di raccontare le cose: un’imprescindibile tappa estiva di crescita. (Alessandra Chiappori, qui i suoi articoli)

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“Uno zero” di Hanif Kureishi (Bompiani)

Non mi ero mai accostato ad Hanif Kureishi. Per un motivo o per un altro le nostre strade non si erano mai incrociate. Non sapevo cosa mi perdevo. E all’inizio dell’estate del 2017, per me una stagione di svolta a livello personale, mi sono imbattuto in Uno zero (Bompiani), un romanzo di Kureishi che si regge sulle spalle del protagonista, un celebre, anziano e malridotto regista di grido, il cinico, melodrammatico, pragmatico, ironico, romantico Waldo: “Cosa fa un regista cinematografico? Attira il pubblico in una trappola di piacere offrendogli lo spettacolo dei delitti. Delitti e amore sono gli unici argomenti. Spacciamo passione e crudeltà, e il pubblico ci ripaga con denaro e fama”. Finita quella lettura, non ho smesso più, ho recuperato tutti i suoi libri disponibili in italiano di Kureishi. (Giosué Colomba, qui i suoi articoli)

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“La spartizione” di Piero Chiara (Mondadori)

Estate 2006, quella del matrimonio: l’attesa per l’evento, la cavalcata degli Azzurri di Lippi verso un successo mondiale insperato. E tra le mani La spartizione di Piero Chiara col suo indimenticabile protagonista, Emerenziano Paronzini, funzionario ministeriale, che trasferito a Luino va in cerca di una donna che lo mantenga, non necessariamente bella, assolutamente priva di velleità materne, ma che sia ricca. Saranno le tre sorelle Tettamanzi a catturare l’attenzione di Emerenziano e a… contenderselo. Un piccolo capolavoro di eleganza e ironia, con un finale tutto da gustare. (Giovanni Di Marco, qui i suoi articoli)

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“L’occhio del male” di Stephen King (Sperling&Kupfer)

Ce ne stavamo così, io e mio fratello, un po’ a bighellonare. Dormivamo fino a tardi, leggevamo tanto e guardavamo un sacco di film ché, anche quell’estate – come diverse altre prima di quella –, non c’erano i soldi per andare in vacanza. 

Eppure fu proprio quell’estate a fruttarmi una notte indimenticabile e un libro che la occupò tutta, fino all’alba. 

Il libro era un’edizione un po’ maltrattata di L’occhio del male di Stephen King – o meglio del suo alter-ego, Richard Bachman – e parlava di questo tizio, un uomo mediocre e sovrappeso con una vita apparentemente tranquilla, a cui era capitata una cosa talmente grossa che si erano smosse perfino le potenze infernali per maledirlo.

Poteva ingoiare anche un elefante, ma non metteva su un grammo di peso anzi, continuava a dimagrire, tanto da indurci a pensare che, se non fosse riuscito a sistemare le cose, avrebbe fatto davvero una brutta fine.

Mi scolai tutto il libro come si beve una bibita ghiacciata nel cuore di una notte afosa e infestata dalle zanzare e, quando all’alba voltai l’ultima pagina, corsi da mio fratello per dirgli che era un gran bel romanzo e che volevo passarglielo, che c’era questo posto strano dove andare e che c’erano buone probabilità che, come me, si sarebbe ricordato del viaggio. (Sara Galletti Manfroni, qui i suoi articoli)

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E. De Luca e M. Duras (Feltrinelli)

È un anno con l’8, l’anno dall’estate indimenticabile e del libro splendido. 

Da sempre, gli anni con l’8, imitazione di infinito, hanno segnato un punto a favore, forieri di un’acquisizione salvifica per capire e capirsi. 

È il 2018 l’anno con l’8 di cui parlo. La sua estate, per essere precisi. Partita un po’ in sordina perché uscivo da una personale selva oscura, si è trasformata nell’estate dei sogni realizzati, dell’uscita dal guscio, e soprattutto del volare via dei fogli con i miei scritti, fuori dal cassetto: torre d’avorio da cui non li avevo mai liberati. 

Il 2018 ha spostato il baricentro. L’anno in cui erano più le volte in cui mi ritrovavo in libreria, che in spiaggia. Entravo, sentendone un richiamo che assomigliava a un bisogno. Quando ho compreso, finalmente, il mio rapporto viscerale con la lettura ho capito che era per me una spinta naturale in cui ti riconoscermi. 

Quell’estate ha fatto da testimone a un percorso evolutivo che devo ai libri. Ne cercavo per ricominciare, cercavo storie che non fossero la mia per capire meglio proprio la mia. E in ogni libro sapevo che avrei trovato la mollica di Pollicino che mi avrebbe segnato la strada verso il cambiamento che sentivo vicinissimo.

In quel marasma emotivo ed estivo ho incontrato due libri che hanno cambiato tutto. E che, come un tatuaggio invisibile, mi porto sotto pelle da allora: I pesci non chiudono gli occhi di Erri De Luca (Feltrinelli) e L’Amante di Marguerite Duras (Feltrinelli). 

Il terremoto che hanno generato questi due libri con quello stile così simile in due autori tanto distanti come tempo e come cultura, la loro voce concisa, evocativa, paratattica sono stati cosi coinvolgenti, che hanno segnato in me un tempo. C’erano delle risposte, per la prima volta, tra le righe. Due libri opposti, due focus lontanissimi tra loro e io ero lì, a metà strada tra la prosa poetica, quasi fanciullina, di Erri De Luca e la consapevolezza ferma, granitica femminile e adulta di Marguerite Duras. 

Di quell’estate con l’8 è rimasta l’indelebile lezione che ciò che cerchiamo, spesso, può raggiungerci, passando dai libri o spesso si manifesta semplicemente a noi tramite loro.

Quell’anno, la mia prima recensione si è allontanata da me e ha raggiunto l’autore del libro. 

Il cambiamento chiedeva coraggio. Ci furono riscontro e riconoscimenti pubblici. L’indimenticabile estate del 2018 mi ha regalato ciò che amo fare, anche qui, e una buona coscienza d’amare. (Paola Giorgia, qui i suoi articoli)

“Il silenzio del cielo” di Romano Battaglia (Rizzoli)

Ascoltavo il silenzio del cielo mentre – in un torrido agosto, all’età di otto anni – sedevo ai piedi di un ulivo in una grande distesa di terra con vigneti e mandorli che era appartenuta ai miei nonni materni.
Mi perdevo nel silenzio del cielo quando calava la sera e i miei genitori, dentro un casotto antico, preparavano la cena. Poi saremmo tornati a casa, nella casa di paese da cui (durante il giorno) scappavamo per il caldo e per l’afa di quell’estate.
Leggevo Il silenzio del cielo e mi incantava.
In un piccolo paese dell’entroterra siciliano, quel libro appena pubblicato da Romano Battaglia era arrivato da poco nella biblioteca comunale.
Mi incantava quella copertina blu, piena di stelle.
Mi incantava la storia di un cavallo bianco, che esisteva nella fantasia dei bambini ma forse anche nella realtà, e che si nascondeva tra i boschi.
Mi incantavano i ricordi di un adulto sul tempo che fu: un tempo che lui aveva passato, come me in quel momento, tra gli alberi e sotto le stelle.
Sotto il suo cielo silenzioso, silenzioso come il mio, si nascondevano le speranze, i giochi e la nostalgia per quello che le fiamme, un giorno, avrebbero portato via: un mondo fatato che altro non era che la natura. La stessa in cui mi ritrovavo immersa io.
E il confine tra le pagine del libro e quelle radici di ulivo si perdevano sotto il cielo carico di stelle. (Grazia La Paglia, qui i suoi articoli)

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“Le notti bianche” di Fedor Dostoevskij (Newton Compton)

Non so se sono rimasto giovane come in una delle estati ai tempi del liceo. Non era ancora iniziato l’esodo dalla città e con un mio compagno non particolarmente in vista o brillante (forse oggi si chiamerebbe nerd?) finimmo in più di una libreria del centro e poi decidemmo di fermarci nella più piccola, comunque stipata di libri. La scelta alla fine cadde (anche per budget limitato?) su un volumetto della collana “Millelire” di Newton Compton, Le notti bianche di Fedor Dostoevskij. Ricordo l’incipit a memoria: “Era una notte incantevole, una di quelle notti come ci possono forse capitare solo quando siamo giovani, caro lettore”. Non trovo più il libro, spero, senza tener conto dell’età anagrafica, di non aver smarrito anche la gioventù. (Giovanni Leti, qui i suoi articoli)

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“Canada” di Richard Ford (Feltrinelli)

“La vita che ci passano è vuota. Tocca a noi metterci dentro la parte della felicità”. L’estate del 2013 è stata indimenticabile perché seppelliva la tutt’altro che memorabile estate del 2012 e aveva in sé i germogli di quella successiva, la splendida estate del 2014. Un po’ del merito va allo statunitense che ha scritto quella frase, e un intero maestoso romanzo sull’insondabilità della natura umana, Canada, romanzo di frontiere da attraversare, di dolore e coraggio. Grazie Richard Ford, per questo e per gli altri libri. (Salvatore Lo Iacono, qui i suoi articoli)

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“Padri e figli” di Ivan Turgenev

C’è un gran caldo e mi seggo fuori sul balconcino della stanza d’albergo con il romanzo che sto leggendo tra le mani: io e mio marito abbiamo deciso, dopo questo lungo periodo di clausura, causa Covid, di andare a rivisitare per l’ennesima volta Roma, forse è mio figlio che ci vuole spesso lì, perché è proprio nella città eterna che morì. Era molto affettuoso, ma anche contestatario, in continuo attrito con suo padre, legato ai vecchi principi etico-morali; tuttavia si era diplomato con sessanta, il massimo del nuovo criterio valutativo entrato in vigore proprio quell’anno ed amava follemente la sua ragazza. Il suo modo di essere si rispecchia appieno nella personalità di Evgenij Bazarov, uno dei protagonisti del romanzo che sto leggendo, Padri e figli di Ivan Turgenev, che pur in un contesto storico-sociale diverso, propone il tema del contrasto generazionale. Come Eugenij Bazarov anche mio figlio era fiero, orgoglioso e nichilista, si vantava di non credere in nulla, negava l’amore ed era sprezzante sino al cinismo, fin quando anche lui s’innamorò. Poi la tragica sua morte pose fine a tutto, a prescindere dal dolore che mai abbandonerà il mio cuore. (Francesca Luzzio, qui i suoi articoli)

Turgenev

“Cent’anni di solitudine” di Gabriel Garcia Marquez (Mondadori)

L’estate indimenticabile è quella del 2000. L’estate del mio matrimonio. E di una scelta importante: quale libro mettere sul comodino, che fosse degno del momento, all’altezza di giorni e notti e di svolta, di veri inizi. Cent’anni di solitudine, di Gabriel Garcia Marquez. Incredibile a dirsi, non l’avevo ancora letto. E poi fu tutto un turbine, dalla prima apparizione di Melchìades ad Aureliano Buendia che modella pesciolini d’oro, amori, rivoluzioni, stupori, la forza primordiale, la meraviglia infinita, tutta la gamma di sfumature della vita, tutte racchiuse in un solo romanzo. Un libro indimenticabile, un’estate stupenda. (Mauro Mangano, qui i suoi articoli)

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“La bella estate” di Cesare Pavese (Einaudi)

Scelta scontata ma necessaria: La bella estate di Cesare Pavese. Libro dell’estate, di tutte le estati, da leggere sul divano a sedici anni, quando ancora certe esperienze si osservano a distanza, al mare a diciassette e in qualsiasi altro posto a diciotto, finché in un qualche modo la propria storia si sfilaccia, sovrapponendosi a quella di Ginia, in un gioco di rispecchiamenti e distanze che ha sempre il sapore della nostalgia. È un racconto di giovinezza, di feste e balli nelle sale torinesi e lunghe passeggiate sotto i portici; un ritratto di crescite improbabili, mai esaurite del tutto, come se di fronte a certi eventi si rimanesse, in qualche modo, sempre impreparati. E infatti La bella estate è uno di quei libri che puoi leggere a qualsiasi età avvertendo, comunque, che qualcosa in quella storia ti appartiene: un’indecisione, un gesto trattenuto, la spensieratezza di certi attimi in cui il futuro si offriva come una promessa da cogliere. Ho la sensazione che fino alla vecchiaia questo libro sarà, ogni anno, un libro speciale; e al tempo stesso so che ci saranno alcune estati a cui la storia di Ginia si legherà con più forza, dando voce a esperienze che sarebbero rimaste altrimenti incomprensibili – come quell’estate in cui ho scoperto, insieme a lei, che crescere è un gioco di finzioni, di travestimenti, spesso accompagnato dal timore di essere scoperti nella propria fondamentale inadeguatezza; che l’ingresso nell’età adulta porta il bruciore di uno strappo, di qualcosa che ti è stato tolto per sempre, e non è detto che tu sappia distinguere il momento preciso in cui è avvenuto il taglio. Ricordo che l’anno scorso parlavo con un’amica di quanto fossero sfumati i contorni di questa storia: ci eravamo rese conto che, per quanto ci provassimo, nessuna delle due avrebbe saputo dire con certezza in che frangente Ginia avesse perso la verginità, quasi che Pavese avesse reso segreto e indicibile il momento di passaggio per eccellenza nell’esperienza di una ragazza. Ecco, forse è questa la cosa che amo di più di La bella estate: questo senso di mistero, carico di grigi, a motivo del quale nessuna esperienza può assumere mai la forma di una cosa compiuta. La mia estate indimenticabile porta gli stessi contorni frastagliati, la stessa impenetrabilità. Eppure, ogni volta che leggo questo romanzo mi sembra di capirla di più – come se nella storia di Ginia fossero racchiuse tutte le nostre estati, le nostre belle estati. (Rebecca Molea, qui i suoi articoli)

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“Dio di illusioni” di Donna Tartt (Rizzoli)

Se solo mi ricordassi il libro che ha segnato l’estate della mia adolescenza, non esiterei a raccontarvi quello. Sarà che è più di vent’anni che non ho più vent’anni. Sarà che in quella fase d’esordio alla vita adulta mi rimpinzavo di letture bulimicamente perdendone il conto, ma proprio quell’amore là, l’ho dimenticato. Visto, però, che c’è sempre una seconda possibilità, riparto da essa. Riparto dall’estate in cui é cominciata la mia nuova adolescenza, quella da madre, e dal romanzo che ha suggellato l’inizio di un’intesa del tutto nuova con le mie figlie, basata sull’identità di gusti letterari.

Galeotto fu, nel nostro caso, The secret history tradotto in Italia da Idolina Landolfi con il titolo Dio di illusioni per la collana BUR. L’esordio di Donna Tartt, romanziera grandiosa, alla quale riuscirà successivamente di bissare il primato, quello, cioè, di irretire contemporaneamente tutte noi lettrici di casa, con Il cardellino.

Era l’agosto del 2014. Mia figlia maggiore aveva vent’anni. La minore sedici. Non vi rivelerò, naturalmente, la mia età.

Mi parve, dall’ardore con cui commentavamo, che ci fossimo trasferite anche noi nel college nel Vermont dove ha luogo la storia, anziché essere a Procida. Che, insieme a Richard, lo squattrinato studente voce narrante, fossimo iniziati anche noi, pagina dopo pagina, dai suoi sei ricchi, raffinati, colti e viziati colleghi, all’ “infinità di trucchi grazie ai quali il male si presenta come bene”

Mi lasciai contagiare dall’entusiasmo genuino ed esaltato con cui le mie adolescenti affrontarono le 555 pagine del libro, conquistate dal racconto delle sbronze e delle abitudini eccentriche dei sofisticatissimi Henry, Charles e Camilla, Francis e Bunny, sodali scavezzacollo di avventure tenebrose ma anche studenti modello alla luce del sole. La figura di Julian, il professore di greco antico, che li seduce introducendoli al rito Dionisiaco. L’America delle stratificazioni in classi sociali. I segreti e i drammi esistenziali dei coetanei. Infine, a svettare su tutto, l’universo classico, che per ogni studente di liceo rimane il più bello dei mondi possibili. Tutti ingredienti potenti, che il furore dell’adolescenza sublima al grado superlativo: bellissimo libro di un’estate bellissima. (Antonietta Molvetti, qui i suoi articoli)

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“Nemesi” di Philip Roth (Einaudi)

Sette anni fa la mia vita era diversa. Sette estati fa mi facevo domande che ho smesso di farmi. E ce n’era una in particolare, che però non riuscivo a formulare, né sottovoce né col pensiero. Poi l’ho trovata tra le pagine del libro che stavo leggendo allora, era luglio. Era un romanzo di Philip Roth, Nemesi (Einaudi). Era di qualche anno prima, avevo acquistato la versione tascabile. Era l’ultimo di Roth, non ce ne sarebbero stati altri. E lì, a un certo punto, c’era la frase, la domanda che mi tormentava, ma che non avevo il coraggio di esprimere: “Io sono solo una ragazza qualunque che vuole essere felice. Tu mi rendi felice. Mi hai sempre reso felice. Perché ora non più?” (Micol Treves, qui i suoi articoli)

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È possibile ordinare questi e altri libri presso Dadabio, qui i contatti

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